WALL·E è un film d'animazione del 2008 scritto da Andrew Stanton e Jim Reardon, da una storia originale di Andrew Stanton e Pete Docter, e diretto dallo stesso Stanton.
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Con WALL·E, la Pixar abbandona le parole e abbraccia il silenzio. In un futuro abbandonato dall’uomo, un piccolo robot compattatore di rifiuti ci racconta, senza parlare, una delle storie d’amore più poetiche mai viste sullo schermo.
In un panorama cinematografico dove il dialogo spesso guida la narrazione, la sceneggiatura di WALL·E osa un gesto radicale: togliere quasi completamente la parola scritta e puntare tutto sul linguaggio visivo ed emotivo.
Andrew Stanton costruisce una storia che parla al cuore, dove ogni gesto, ogni sguardo e ogni suono contribuisce a un racconto profondamente umano, anche se i protagonisti non lo sono.
La prima pagina della sceneggiatura di WALL·E è un piccolo trattato di narrazione visiva: non ci sono dialoghi, ma immagini evocative, dettagli significativi, ritmo cinematografico allo stato puro.
In questa analisi partiamo proprio da lì — dalla pagina uno — per scoprire come un mondo desolato possa brillare di emozione e significato. E perché WALL·E è molto più di un film d’animazione post-apocalittico.
Sceneggiatura completa di WALL•E
Logline
Nel lontano futuro, la Terra è stata abbandonata dagli esseri umani e lasciata a un esercito di robot spazzini. Solo uno di loro, WALL·E, continua il suo lavoro ogni giorno, da solo, sognando qualcosa di più. Quando un moderno robot-sonda chiamato EVE arriva dallo spazio, la vita di WALL·E cambia per sempre.
Pagina uno
La prima immagine
La sceneggiatura di WALL·E si apre con un paesaggio silenzioso e desolato: una Terra vuota, soffocata dalla spazzatura e dall’abbandono. Il tutto è contrastato da una canzone allegra e vintage — Put On Your Sunday Clothes — che accompagna la vista di stelle, galassie, nebulose. È un’apertura che contrasta luce e oscurità, gioia e malinconia.
Non ci sono voci. Non ci sono parole. Solo immagini e suoni ambientali.
Eppure, questa pagina iniziale comunica tutto: il tono del film, il suo mondo narrativo, e soprattutto lo sguardo malinconico e pieno di meraviglia che accompagnerà l’intera storia.
Ma il mondo che stiamo per vedere non ha nulla di vitale. Una Terra drab and brown, opaca e marrone, compare all’orizzonte, incastonata in un’atmosfera inquinata.
È un’apertura puramente cinematografica.
La sceneggiatura non ci dice dove siamo o cosa sia successo. Ce lo fa vedere.
Le montagne si rivelano per ciò che sono: mucchi di spazzatura. Non c’è natura, non c’è vita. Solo TRASH.
E tra quei cumuli, una città fantasma fatta di cubi impilati, torri di rifiuti che sembrano grattacieli. È un mondo morto, ma costruito con una precisione visiva straordinaria.
La regola è sempre la stessa: non spiegarlo, mostralo.
Questa pagina non introduce un personaggio, ma costruisce un mondo. Non racconta cosa è successo, ma lo lascia intuire. È puro visual storytelling.
Poi, finalmente, qualcosa si muove.
Un piccolo robot — A SMALL SERVICE ROBOT — arrugginito e tenero, lavora con metodo tra i cumuli.
Non ha nome, non ha battute. Ma la sceneggiatura lo descrive così:
“Cute. Every inch of him engineered for trash compacting.”
Il cuore del film è tutto qui. In un personaggio che non parla ma comunica con ogni gesto.
WALL·E raccoglie, compatta, impila. E mentre lo fa, quella musica allegra continua, quasi a sottolineare l’assurdità poetica della scena:
“...Beneath your parasol the world is all a smile…”
La pagina uno è una piccola lezione di narrazione muta. Musica, immagini, azioni. Nessuna voce umana.
Eppure, tutto è chiaro. L’emozione è lì. Il tono è lì. Il mondo è lì.
Questa non è solo una prima pagina. È un manifesto narrativo: la sceneggiatura non ha bisogno di parole per farci sentire qualcosa.