Gravity è un film del 2013 scritto da Alfonso Cuarón, Jonás Cuarón e diretto da Alfonso Cuarón.
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Alfonso Cuarón, regista, sceneggiatore e produttore messicano, è una delle voci più audaci e riconoscibili del cinema contemporaneo. Con Gravity (2013), ha scritto una sceneggiatura che sfida le convenzioni del racconto classico e fonde spettacolo visivo, tensione emotiva e riflessione esistenziale in un’opera di sorprendente essenzialità.
Cuarón, già noto per il realismo magico de Y Tu Mamá También (2001) e la potenza visionaria di I figli degli uomini (Children of Men, 2006), usa lo spazio come metafora estrema della solitudine e della rinascita. La pagina uno di Gravity è un modello di scrittura cinematografica asciutta, precisa e fortemente immersiva: niente orpelli, niente dialoghi superflui, solo immagini e azione che parlano da sole.
Attraverso questa analisi, entriamo nel cuore di una sceneggiatura che riesce a essere tanto spettacolare quanto intima, mostrando come, anche nel vuoto più assoluto, possa emergere la più umana delle lotte: quella per restare vivi.
Logline
Quando un disastro distrugge il loro shuttle, un ingegnere biomedico e un'astronauta veterano rimangono alla deriva nello spazio. Isolati, senza contatto con la Terra e con l’ossigeno che si esaurisce, devono affrontare il vuoto, il silenzio e le proprie paure per cercare una via di salvezza.
Pagina uno
La prima immagine
La sceneggiatura di Gravity si apre nel buio assoluto. Nessuna immagine, nessun suono. Solo un testo in sovrimpressione che enuncia dati scientifici inesorabili: a 600 chilometri sopra la Terra, la temperatura oscilla tra +258 e -148 gradi Fahrenheit; non c’è suono, né pressione atmosferica, né ossigeno.
“La vita nello spazio è impossibile.” Questa dichiarazione netta, imposta in bianco su nero, non è solo un dato ambientale: è una premessa narrativa, una minaccia implicita, quasi un avvertimento. Quando infine compare il titolo GRAVITY, seguito dall’inquadratura del pianeta azzurro che ruota lentamente nello spazio, il contrasto è totale.
Dal vuoto nero si passa all’immensità silenziosa, visivamente magnifica ma inospitale. In poche righe, Alfonso e Jonás Cuarón stabiliscono il tono: lo spazio non è un luogo neutro, ma un antagonista silenzioso e onnipresente. E lo fanno con una scrittura minimale, che si affida al potere delle immagini e alla forza del non detto.
Lo stile di scrittura è asciutto, visivo, privo di fronzoli: ogni parola serve a costruire l’esperienza immersiva che il film offrirà allo spettatore.
Non ci sono troppe didascalie, solo ciò che la macchina da presa può vedere o udire — e in questo caso, nemmeno quello. La pagina uno si presenta così: scarna, essenziale, ma potentissima. Un esempio perfetto di come una sceneggiatura possa comunicare tensione e atmosfera fin dal primo fotogramma non mostrato.