Cousin Oliver Syndrome: Cosa segna il declino di una serie?
La settimana scorsa abbiamo pubblicato un articolo dedicato al fenomeno del Jumping the Shark, ovvero quando uno show televisivo, nel tentativo di reinventarsi e di restare a galla, finisce per proporre al pubblico soluzioni sempre più improbabili, perdendo poco a poco la sua identità originaria.
Ribadendo ciò che abbiamo già detto in quell’articolo, un buon sceneggiatore (ma anche produttore) deve essere in grado di riconoscere i segnali del declino narrativo della propria storia e comprendere che alcune scelte creative, spesso dettate da esigenze di marketing più che dalla coerenza narrativa, rischiano di comprometterne l’identità e la qualità della propria storia.
Tra queste scelte discutibili, una delle più evidenti (e temute) è l’introduzione del cosiddetto Cousin Oliver (letteralmente il “Cugino Oliver”): un espediente tanto diffuso quanto controverso, che nel tempo è diventato il simbolo stesso del tentativo, ingenuo e disperato, di ridare vita a una serie ormai stanca.
Un nuovo arrivo in casa Brady: Oliver
Il problema delle serie, rispetto ai film, è riuscire a mantenere viva la creatività e quel tratto di genialità che consente loro di andare avanti stagione dopo stagione. In un certo senso, si potrebbe dire che una serie è tale se permette una narrazione continua e infinita. Ma più si va avanti con le stagioni, più irridiabilmente la qualità cala, proprio per una perdita di fantasia e originalità. Un esempio lampante sono le nuove stagioni de I Simpson (The Simpsons, 1989-in corso): sia il pubblico che la critica ritengono che la serie abbia perso la sua ispirazione e la sua genialità, e che le nuove puntate siano spesso ripetitive e prive di anima.
Nel tentativo di far rimanere a galla una serie, autori e produttori cercano disperatamente di introdurre novità che possano far continuare il pubblico a rimanere fedeli alla serie. Queste novità possono essere situazioni assurde, come già mostrato nell’articolo precedente attraverso la serie Happy Days (1974-1984): le innumerevoli stagioni e il bisogno di andare avanti hanno portato Fonzie a saltare sopra uno squalo con gli sci d’acqua.
Un’altra delle strategie più comuni per “ravvivare” una serie in fase calante è l’introduzione di un nuovo personaggio, pensato per portare freschezza o attrarre un nuovo pubblico. Il caso più emblematico (da cui deriva il nome del fenomeno che stiamo raccontando) è quello de La famiglia Brady (The Brady Bunch, 1969–1974), una sitcom americana che racconta le vicissitudini quotidiane di grande famiglia allargata americana.
Nei primi anni, la serie fu un grande successo: il pubblico si affezionò ai personaggi, ai loro piccoli drammi quotidiani e al tono genuino e rassicurante che permeava ogni episodio. Tuttavia, con il passare delle stagioni, l’entusiasmo iniziò gradualmente a diminuire. Il motivo principale non era legato alla qualità della scrittura o alla stanchezza del formato, ma a una questione anagrafica: i giovani attori che interpretavano i figli Brady stavano crescendo. Quello che all’inizio era il cuore pulsante della serie, ovvero la vita quotidiana di una grande famiglia sotto lo stesso tetto, cominciava a perdere la sua forza narrativa. Man mano che i ragazzi diventavano adolescenti e poi giovani adulti, la trama rischiava di allontanarsi dal suo scenario più iconico: la casa familiare, con i suoi ritmi, le sue regole e le sue piccole avventure domestiche. Se i figli fossero “usciti di casa”, la serie avrebbe perso la sua stessa essenza.
Per evitare questo svuotamento, nell’ultima stagione gli autori decisero di introdurre un nuovo personaggio: il piccolo Oliver (Robbie Rist), il cugino biondino e dagli occhi grandi che viene a vivere con i Brady. L’intento era chiaro: riportare in scena la spontaneità e la dolcezza infantile che avevano contribuito al successo delle prime stagioni.
Ma il risultato fu opposto: il pubblico percepì l’arrivo di Oliver come un espediente forzato, un segnale della stanchezza creativa della serie. Quello che doveva essere un simbolo di freschezza divenne fin da subito un simbolo del declino dello show.
Da allora, nel linguaggio televisivo americano, l’espressione “Cousin Oliver Syndrome” è diventata sinonimo di quel momento in cui una serie, nel tentativo disperato di restare viva, introduce un nuovo personaggio giovane e adorabile — ma finisce per peggiorare la situazione, sancendo il principio della fine.
Introdurre un nuovo personaggio: Olivia
Ma quindi aggiungere un nuovo personaggio significa che la serie che sto sviluppando è in declino?
La risposta è no. Aggiungere non è sinonimo di appesantire. Le modifiche in una serie sono inevitabili, perché fanno parte della sua stessa natura. Come scrive Nicola Lusuardi nel suo saggio La rivoluzione seriale, il prodotto seriale ha una funzione di visione interminabile, capace di offrire una ripetizione senza fine e al tempo stesso di rinnovarsi continuamente, esplorando variazioni sull’identico.
Ciò che davvero appesantisce una storia non è l’aggiunta di un nuovo personaggio, ma la forzatura con cui viene introdotto. Bisogna sempre tornare al cuore del racconto, ai motivi che ci hanno spinto a scriverlo e a portarlo avanti.
Il problema del cugino Oliver non è tanto la sua comparsa, quanto la totale assenza di un legame narrativo autentico. Oliver è figlio di una cugina di Carol Brady (Florence Henderson) che deve partire per un lungo viaggio all’estero. Non potendo portarlo con sé, affida il bambino ai Brady “per un po’ di tempo”.
Fine. Questa è l’unica ragione che giustifica il suo arrivo. Il viaggio della cugina serve unicamente come pretesto narrativo per reinserire nella serie una figura infantile, un “piccolo” in grado di ricreare le dinamiche comiche e ingenue delle prime stagioni. Ma il personaggio non si integra mai davvero: appare all’improvviso, senza un vero rapporto emotivo con gli altri membri della famiglia, e le sue scene ruotano intorno a gag isolate, prive di un reale contributo alla crescita del racconto. Non stupisce quindi che, dopo appena sei episodi, Oliver scompaia del tutto senza spiegazioni, lasciando dietro di sé la sensazione di un espediente goffo e forzato.
Ripetiamolo: non è l’aggiunta, ma la forzatura ad appesantire la storia.
E per dimostrarlo, basta guardare a un altro bambino introdotto in una celebre sitcom familiare: Olivia Kendall (Raven-Symoné) ne I Robinson (The Cosby Show, 1984–1992).
Come la famiglia Brady, anche la famiglia Robinson è una grande famiglia allargata. E come nei Brady, anche i giovani Robinson crescono stagione dopo stagione, fino a diventare giovani adulti e a lasciare il nido materno. È il caso di Denise Robinson (Lisa Bonet), che in un certo punto si trasferisce in Africa. Quando torna, all’inizio della sesta stagione, porta con sé due grandi novità: un marito, Martin Kendall (Joseph C. Phillips), e la sua figlia avuta da un precedente matrimonio, Olivia.
A differenza del cugino Oliver, però, Olivia non arriva a caso. Il suo ingresso è narrativamente motivato e coerente con la storia familiare: nasce da un cambiamento nella vita di Denise, una delle figlie principali, e non da una trovata esterna. Inoltre, a differenza della madre di Oliver, che sparisce subito dopo averlo lasciato dai Brady, Denise rimane presente nella serie, continuando a vivere insieme a Olivia nella casa dei Robinson per tutta la sesta e la settima stagione.
Questo rende l’inserimento di Olivia perfettamente naturale: il pubblico non la percepisce come un corpo estraneo, ma come una nuova ramificazione della famiglia, un’estensione logica e credibile del racconto. Il suo arrivo permette inoltre alla serie di ritrovare la dimensione infantile e domestica.
ATTENZIONE
L’accettazione di un personaggio, soprattutto se bambino, dipende molto anche dalla capacità interpretativa dell’attore. Nel caso di Olivia, il suo successo fu in gran parte merito della spontaneità e del talento naturale di Raven-Symoné, che rese il personaggio credibile e immediatamente amato dal pubblico. Al contrario, il piccolo Oliver dei Brady non riuscì a instaurare lo stesso legame con gli spettatori, perché la recitazione risultava meno incisiva e le scene più costruite che naturali.
Il talento di Raven-Symoné non solo consolidò Olivia come presenza centrale della serie, ma le aprì la strada a una carriera di successo, culminata nello show Raven (That's So Raven,2003–2007).
Oliver e Olivia: non bisogna bleffare
Sbalordiscili alla fine e avrai un successo. Trova un finale. MA SENZA BLUFFARE. E guai a te se ci metti dentro un deus ex-machina.
Questo è il consiglio che Robert McKee (Brian Cox) dà ad un appena affermato Charlie Kaufman (Nicolas Cage) nel film Il ladro di orchidee (Adaptation, 2002). Al di là di cosa possa aggiustare la storia, che sia di un film o di una serie, l’importante è non bluffare, ovvero, non prendere in giro il tuo pubblico.
Ecco la vera differenza tra l’apparizione di Oliver e quella di Olivia: il primo viene introdotto solo ed esclusivamente per riempire un vuoto narrativo, senza avere nessun legame reale con la storia e, soprattutto, con i personaggi; al contrario, Olivia entra in modo naturale e coerente, frutto dell’evoluzione dei personaggi e della vita familiare.
Olivia non bluffa il pubblico, Oliver sì.
Conclusioni
L’esperienza di Oliver e Olivia ci insegna una lezione chiave per chi crea storie seriali: non è l’aggiunta di un personaggio a determinare il successo o il declino di una serie, ma il modo in cui questa aggiunta viene integrata nella narrazione. Un personaggio ben inserito, coerente con il cuore della storia e supportato da un interprete capace, può rinnovare lo show, portando freschezza senza tradire l’identità originaria. Al contrario, un inserimento forzato e privo di legame emotivo rischia di diventare il simbolo della stanchezza creativa, come nel caso del cugino Oliver.
In definitiva, quando si lavora a una serie, sia essa una sitcom, un dramma o un fantasy, la regola d’oro rimane sempre la stessa: rispettare la storia e il pubblico. Solo così un nuovo arrivo può trasformarsi da potenziale rischio a vero valore aggiunto.