Come si scrive un dialogo: 5 consigli pratici
Spesso, l’intera trama e tematica di un film si condensano in una singola battuta. E, altrettanto spesso, queste frasi diventano più celebri del film stesso. Chi non ha mai visto Blade Runner (1982), ad esempio, conosce sicuramente l'iconica battuta di Roy Batty: "Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi". Lo stesso vale per la letteratura: non serve aver letto l'intera Divina Commedia per conoscere il suo inizio, "Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita".
Una sola battuta può cambiare il destino di una storia. Dare voce ai personaggi significa dare voce alla storia che si sta raccontando. Ma scrivere un dialogo che suoni autentico, verosimile, e che non sia un mero veicolo di informazioni, è una delle sfide più grandi per uno sceneggiatore. Troppo spesso, si ha la sensazione che i personaggi stiano recitando e che le loro parole non siano davvero le proprie.
L'obiettivo non è scrivere frasi perfette, ma dare a ogni personaggio un modo di parlare unico e riconoscibile. In questo articolo, esploreremo come il dialogo si è evoluto nel tempo e ti daremo cinque consigli pratici per rendere le tue parole più realistiche ed efficaci.
Cinque consigli pratici di sceneggiatori
Gli stili di scrittura dei dialoghi sono tanti e diversi, come i loro autori. Pensa a Charlie Kaufman, con i suoi flussi di coscienza frammentati e introspettivi, dove ansia e nevrosi sono protagonisti; oppure ad Aaron Sorkin, famoso per il ritmo incalzante dei suoi scambi di battute, dove i personaggi si interrompono di continuo. E che dire di Quentin Tarantino? I suoi dialoghi apparentemente casuali e pieni di cultura pop in realtà rivelano moltissimo sulla trama e sui personaggi.
Nonostante ogni sceneggiatore abbia il suo DNA, ci sono esercizi comuni che aiutano a scoprire il potenziale dei dialoghi e a renderli più originali e realistici. Questi consigli (trafugati dalle interviste ai più grandi sceneggiatori) sono utili sia per chi non ha mai scritto una sceneggiatura, sia per chi ha già vinto un Oscar.
Ogni personaggio ha la sua voce
Nel mondo della scrittura, si dice che ogni personaggio abbia una voce unica, proprio come accade nella vita reale. Esiste un concetto in linguistica, specialmente nella branca forense, che lo descrive alla perfezione: l'idioletto. Si tratta dell'insieme delle caratteristiche linguistiche (fonetica, sintassi, lessico, ecc.) che rendono il modo di parlare di ogni individuo inconfondibile. È, in sostanza, il "DNA" verbale di una persona.
Anche nei copioni, i personaggi hanno desideri, bisogni e, soprattutto, modi di esprimersi diversi. Solo raramente, come nel caso di Anomalisa (2015) scritto e diretto da Charlie Kaufman, i dialoghi sono omologati, ma per un preciso scopo narrativo.
Il modo in cui un personaggio parla è una miniera d'oro di informazioni su di lui: rivela il suo passato, la sua provenienza, il suo livello di istruzione, i suoi ideali e i suoi tic.
Ma come si può verificare se due personaggi hanno voci davvero distinte? Non serve essere un linguista forense. Basta un semplice trucco: dopo aver scritto uno scambio di battute, copri i nomi dei personaggi e leggi le battute ad alta voce. Se le frasi sembrano provenire dalla stessa persona, è il segnale che c'è ancora del lavoro da fare per renderle uniche.
Ascolta la vita reale… ma non troppo!
Quando parliamo di verosimiglianza dei dialoghi, non ci riferiamo all'arte di copiare la realtà, ma a quella di crearne un'illusione credibile. Se trascrivessimo una conversazione reale in una sceneggiatura, il risultato sarebbe quasi sempre innaturale e noioso. Ma perché accade questo paradossale effetto?
Nonostante possa sembrare controintuitivo, un dialogo reale, pieno di disfluenze (esitazioni e frasi incomplete), risulterebbe innaturale e noioso in una sceneggiatura. Questo perché il dialogo cinematografico, a differenza del parlato quotidiano, deve essere intenzionale e funzionale, con ogni battuta che serve a far avanzare la trama o definire un personaggio.
La linguistica spiega questo fenomeno con il concetto di registro o diafasia: in un film, il pubblico si aspetta un registro narrativo, dove la lingua è curata e diretta, diverso dal registro informale delle conversazioni reali. L'obiettivo, quindi, non è la verità assoluta, ma la verosimiglianza, ovvero la capacità di apparire credibile all'interno della narrazione.
Come rendere allora un dialogo reale “più cinematografico”? Il suggerimento è togliere: trascrivete un vero scambio di battute che sentite per strada e iniziate a togliere. Eliminate tutto quello che è ininfluente rispetto alla trama e al motore della storia: via parole riempitive come ehm, uhm, cioè (al massimo sarà l’attore a introdurle nel dialogo), cancella frasi che ribadiscono concetti già espressi o informazioni già note ai personaggi. Il dialogo cinematografico è economico; ogni linea di testo ha un valore e uno scopo preciso; evita le frasi di cortesia e convenevoli come presentazioni o saluti che non hanno uno scopo narrativo. Non c’è nulla di male se la scena inizia direttamente nel vivo della conversazione, in medias res.
Ricordatevi anche questo: solitamente, la lunghezza massima di una battuta si aggira sulle quattro righe. La prossima volta che scrivete, contate le righe. Se superano le quattro vedete se qualcosa può essere cancellato!
Show, don’t tell!
Tra i principi fondamentali della scrittura cinematografica, il celebre mostra, non raccontare è forse il più citato — e per una buona ragione. Il cinema è, prima di tutto, un’arte visiva: nasce per mostrare, non per spiegare. Le parole, da sole, non bastano. Un bravo sceneggiatore sa che il dialogo non deve dire ciò che accade, ma deve rivelarlo attraverso tono, sottotesto, gesti e contraddizioni.
Evitiamo l’approccio dei personaggi di Boris, che in crisi creativa si rifugiano nel fatidico “O dimo?”, cercando scorciatoie narrative. In sceneggiatura, quelle scorciatoie si pagano. Il pubblico si accorge subito quando gli si sta spiegando una cosa che dovrebbe intuire. E quando lo spettatore capisce prima di essere dentro una scena, è già fuori.
Parlare significa fare
Quando comunichiamo, non stiamo semplicemente esercitando un’attività mentale. Le parole che usiamo, l’ordine in cui le pronunciamo, il tono, l’intenzione: tutto questo non nasce solo nel cervello, ma coinvolge profondamente il corpo. Pensare, parlare, scrivere — sono azioni incarnate.
Secondo la teoria dell’Embodied Cognition, il pensiero e il linguaggio sono strettamente connessi alle nostre esperienze sensoriali e motorie. Le parole non sono entità astratte: sono vissute attraverso il corpo. Gesti, postura, ritmo del respiro, tensioni muscolari — tutto contribuisce a modellare il nostro modo di esprimerci. Comunicare non è mai solo una questione di testa, ma anche (e soprattutto) di corpo.
Questo è particolarmente utile da ricordare quando scriviamo dialoghi. Non possiamo permetterci di far parlare i personaggi per cinque pagine senza alcuna azione. Le parole da sole non bastano. Ricordatevi sempre: show, don’t tell. Noi italiani, si sa, siamo maestri della comunicazione fisica — e i nostri personaggi dovrebbero rispecchiare questa vitalità. Il corpo parla tanto quanto la voce.
Pensiamo a una scena d’interrogatorio: due personaggi seduti, uno di fronte all’altro. Se ci limitiamo a fargli scambiare delle battute, la scena rischia di diventare piatta e noiosa e, di conseguenza, lo spettatore si distrae, perde attenzione e, con essa, il filo della narrazione.
Mettere in relazione le azioni con le parole può generare una vasta gamma di effetti narrativi e psicologici. Gesti, espressioni facciali, postura e movimenti non sono semplici accessori al dialogo: possono rafforzare, contraddire, anticipare o sovvertire ciò che viene detto.
Ecco alcuni effetti che si possono ottenere combinando efficacemente parola e azione:
- Amplificazione: il gesto che intensifica il tono emotivo delle parole.
- Contraddizione: il gesto può smentire quello che viene detto, creando ambiguità o ironia.
- Grottesco: l’incongruenza tra parola e azione può generare comicità o disagio.
- Sottotesto: il corpo suggerisce ciò che le parole non dicono esplicitamente.
- Manipolazione: il personaggio usa il corpo consapevolmente per ingannare, sedurre o controllare.
- Rivelazione involontaria: le azioni possono svelare qualcosa che il personaggio non vuole o non sa dire.
Insomma, integrare linguaggio e corpo è un modo potente per rendere la scena più credibile, sfaccettata e coinvolgente. Le azioni parlano — spesso più forte delle parole.
Testo e sottotesto
Essere dei bravi dialoghisti significa conoscere le basi della linguistica. Non è un caso che in questo articolo siano stati utilizzati (o forse anche abusati) termini presi in prestito dalla linguistica, poiché il dialoghista e il linguista lavorano sullo stesso strumento di analisi: la lingua parlata!
La linguistica è lo studio scientifico del linguaggio e al suo interno vi sono decine di branche diverse, tutte indirizzate ad uno specifico obiettivo linguistico. Tra queste, esiste la psicolinguistica, lo studio dei fattori psicologici e neurobiologici che stanno alla base dell'acquisizione, della comprensione e dell'utilizzo del linguaggio.
Una delle teorie più note della psicolinguistica è la teoria degli atti linguistici, elaborata da J. L. Austin: questa teoria afferma che il linguaggio non serve solo a descrivere la realtà, ma è un modo per compiere azioni. Ogni frase che pronunciamo è un "atto linguistico" che ha un'intenzione specifica.
Attraverso questa teoria, una qualsiasi battuta pronunciata da un nostro personaggio, presenta tre livelli, o meglio dire atti, ovvero scopi:
1️⃣ Atto Locutorio: L'atto di pronunciare la frase. (Es. "C'è una finestra aperta.")
2️⃣ Atto Illocutorio: L'intenzione dietro la frase. (Es. L'intenzione di "C'è una finestra aperta" potrebbe essere una richiesta di chiuderla perché fa freddo.)
3️⃣ Atto Perlocutorio: L'effetto che la frase produce sull'interlocutore. (Es. L'effetto è che l'interlocutore si alza e chiude la finestra.)
Lo sceneggiatore non si limita a scrivere dialoghi, ma crea le intenzioni che li muovono. Comprendere la teoria degli atti linguistici è cruciale perché permette di scrivere battute che non si limitano a informare, ma agiscono. Un dialogo efficace è fatto di atti illocutori precisi. Un bravo sceneggiatore si concentra su cosa i personaggi stanno realmente "facendo" con le loro parole: stanno mentendo, minacciando, implorando, seducendo o solo informando?
La prossima volta, quando scrivi una battuta, metti anche sotto, nella parentetica, l’intenzione e l’effetto che la battuta deve suscitare, sia per l’interlocutore che per lo spettatore. Il vero consiglio, però, è far leggere le tue battute ad un attore e chiedergli se abbia capito quali siano le vere intenzioni di quella battuta. Se pensate a cose diverse, allora la battuta va modificata.
Conclusioni
Scrivere dialoghi è un'arte di equilibrio. Devi essere il loro orecchio, ma anche la loro voce. Non si tratta di scrivere frasi perfette, ma di creare personaggi che respirano e vivono attraverso le parole che dici loro. Un dialogo efficace può sollevare una buona storia e rendere memorabile un film, ma il suo vero potere non sta in ciò che dice, ma in ciò che suggerisce. Ora che hai questi strumenti a tua disposizione, sei pronto a dare ai tuoi personaggi la loro unica e inconfondibile voce?
Ho riletto attentamente il tuo testo originale e ho cercato di migliorarlo, mantenendo intatta la struttura e l'ordine che mi hai fornito. L'ho reso più conciso e d'impatto, eliminando le ripetizioni e rendendo le frasi più fluide.