Come scrivere una sitcom: Regole e tecniche fondamentali
Sono le otto e mezza di sera. Sul canale della NBC si vede un divano collocato all'esterno, di fronte ad una fontana. Tre ragazze e tre ragazzi si divertono tra tra schizzi d’acqua e pose imbarazzanti dentro la fontana, sotto le note di I'll Be There for You. Il 22 settembre del 1994 andava in onda la prima puntata di Friends (1994-2004), una delle Sitcom più longeve, ma soprattutto, più amate di tutti i tempi.
E proprio di questo genere vogliamo parlare oggi: la Sitcom, uno dei generi seriali più apprezzati, che deve la sua fortuna alla durata dei suoi episodi, ma soprattutto alla leggerezza che coccola i suoi spettatori, tra risate, ma anche pianti.
Ma in quale contesto nasce la Sitcom, come si scrive, ma soprattutto, perché in Italia non ha avuto molto successo a livello produttivo?
Breve storia della Sitcom
Abbreviazione di situation comedy, la sitcom nasce negli Stati Uniti negli anni ’20 come programma radiofonico, con episodi della durata di dieci, quindici minuti. La prima sitcom fu Sam 'n' Henry (1926), trasmessa dall’emittente WGN Radio. Data la loro brevità, le sitcom raccontavano storie di famiglie o piccoli gruppi di personaggi alle prese con situazioni di vita quotidiana, sempre in chiave comica.
Con l’arrivo e la diffusione della televisione nelle case americane, la sitcom si trasferì sul nuovo medium, mantenendo la durata ridotta e la narrazione incentrata sulla vita di tutti i giorni. Una delle prime a compiere questo passaggio fu The Goldbergs (1949), che portò in TV le vicende di una famiglia ebrea di New York.
Ma la vera esplosione del genere arriva con Lucy ed io (I Love Lucy, 1951), considerata la madre di tutte le sitcom. Con il suo set multi-camera, le risate registrate dal vivo e la dinamica di coppia buffa e affettuosa, essa stabilì il modello classico del genere: un piccolo gruppo di personaggi, uno spazio principale (la casa, l’ufficio, il bar) e situazioni quotidiane che si risolvono in un arco di 20 minuti.
Da lì in poi, la sitcom diventa un pilastro della televisione, evolvendosi insieme alla società e ai gusti del pubblico. Negli anni ’60 e ’70 si sperimenta con contesti diversi: Vita da strega (Bewitched, 1964-1972) introduce elementi fantastici e surreali, con la vita di una strega costretta a nascondere i propri poteri in un contesto domestico apparentemente normale, mentre MASH (1972-1983) combina comicità e dramma in un’ambientazione più seria come quella di un ospedale militare durante la guerra di Corea, dimostrando che la sitcom può trattare anche temi sociali e storici senza perdere il tono leggero e comico.
Negli anni ’80 e ’90 il genere esplode nel formato familiare e urbano: I Robinson (The Cosby Show, 1984-1992) racconta una famiglia afroamericana borghese, diventando un fenomeno culturale grazie alla sua capacità di unire situazioni quotidiane, valori positivi e comicità accessibile a tutti, mentre Friends (1994-2004) porta l’attenzione sulle dinamiche di gruppo tra giovani adulti in città, mostrando come la vita quotidiana possa diventare materiale comico attraverso rapporti interpersonali, relazioni amorose e amicizie.
Infine, con l’avvento degli anni 2000, la sitcom si apre a sperimentazioni narrative e stilistiche: The Office (2005-2013) e Modern Family (2009-2020) adottano lo stile del mockumentary, utilizzando la telecamera come osservatore diretto e inserendo confessionali dei personaggi, creando un senso di immedesimazione e realismo comico mai visto prima. In questo modo, la sitcom non si limita più a spazi fissi e trame prevedibili, ma gioca con il tempo, lo sguardo e la costruzione del racconto, dimostrando la sua capacità di adattarsi e rinnovarsi pur mantenendo i tratti fondamentali del genere: familiarità, ritmi serrati, personaggi riconoscibili e comicità basata sulle relazioni.
Venti minuti
Less is more. Questo principio, coniato dall’architetto Ludwig Mies van der Rohe, trova la sua massima espressione non solo nel design, ma anche nella narrazione. L'idea che rimuovere il superfluo non solo renda un progetto più chiaro e funzionale, ma ne amplifichi il valore e l'impatto, è la base di qualsiasi scena di qualsiasi sceneggiatura.
Questo concetto è particolarmente cruciale per la sitcom, dove un episodio ha una durata di massimo venti minuti. A prima vista, potrebbe sembrare un tempo insufficiente per sviluppare una trama, ma in realtà è la chiave per creare una storia potente. Una narrazione efficace non dipende dal numero di pagine, ma dalla forza del suo conflitto drammaturgico.
Basti pensare ai cortometraggi o, ancora di più, agli spot pubblicitari. È possibile raccontare storie complesse ed emozionanti in pochi minuti, a volte anche in meno di sessanta secondi. Un esempio iconico è lo spot della Apple per il lancio del primo Macintosh, vincitore del premio Oscar per il miglior cortometraggio.
In questo breve filmato, una protagonista forte e determinata si ribella a un antagonista che rappresenta un sistema autoritario e oppressivo. Una massa anonima di persone fa da sfondo a questo evento unico: la ribellione della protagonista. In meno di un minuto, lo spot comunica l'intento commerciale di Apple: presentare il Macintosh non come un semplice computer, ma come un simbolo di ribellione, rivoluzione e innovazione, una rottura con i vecchi sistemi.
Se una storia di tale portata può essere raccontata in un minuto, è chiaro che tutto è possibile. E a quel punto, venti minuti sembrano un tempo quasi illimitato.
Ambientazioni ricorrenti
I personaggi e le vicende delle sitcom vivono in spazi delimitati e riconoscibili: può essere il salotto di una casa, il bar di quartiere, il posto di lavoro o addirittura nell’aldilà come The Good Place (2016-2020). Quale che sia l’ambientazione, l’importante è proiettare nel pubblico un senso di familiarità, tanto da acquisire un’identità propria.
Prendiamo per esempio l’ospedale Sacro Cuore di Scrubs (2001-2010): corridoi, stanze private, sale d’attesa e reparti non sono soltanto scenografie, ma spazi narrativi in cui si intrecciano storie d’amore, amicizie, conflitti e riflessioni etiche. Per rafforzare questa continuità, persino le altre ambientazioni, come la casa di JD (Zach Braff) e Turk (Donald Faison) sono state ricostruite all’interno dello stesso ospedale, mantenendo quella coerenza visiva e affettiva che ha reso l’universo della serie così riconoscibile.
La staticità apparente di queste ambientazioni non è un limite, ma un vantaggio: riduce la dispersione e concentra l’attenzione sulle relazioni tra i personaggi. Proprio in questo equilibrio tra ripetizione e sorpresa risiede la forza comica.
Riprendendo Scrubs, uno dei motivi principali del discusso tracollo della nona stagione fu proprio il cambio radicale dell’ambientazione: nel primo episodio, veniamo a sapere in pochi secondi che il vecchio Sacro Cuore è stato demolito. Con esso, di fatto, è venuta meno anche quella familiarità che per anni aveva rappresentato l’anima stessa della serie.
Un cast corale
A differenza di altri generi narrativi, dove il protagonista è l’elemento centrale e dominante, la sitcom si fonda sul gruppo.
Robert McKee, nel suo manuale Story, osserva come esista un rapporto implicito tra numero e complessità dei personaggi: più il cast è ampio, meno i singoli personaggi possono essere complessi; al contrario, un cast ristretto richiede figure più complesse.
Non sorprende quindi che nelle sitcom ogni personaggio incarni un archetipo chiaro e immediatamente riconoscibile: il pigro, l’ingenuo, l’intellettuale, il cinico, il sognatore. Questi caratteri, messi a confronto, generano attriti e contraddizioni che alimentano la comicità. La battuta non esiste mai in isolamento: la risata nasce dal conflitto, dalla relazione e dal contrasto tra personalità diverse. È per questo che la sitcom si regge su dinamiche collettive più che su eroi individuali.
Un esempio efficace è The Office US (2005-2013): Michael Scott (Steve Carell) incarna il capo ingenuo e inadeguato, Dwight (Rainn Wilson) è il fanatico della disciplina e dell’ordine, Jim (John Krasinski) il cinico disilluso, Pam (Jenna Fischer) la sognatrice timida. Ognuno risponde a un archetipo semplice ma riconoscibile, e sono proprio le interazioni tra queste figure a generare la comicità, più che le azioni individuali.
Con l’uscita di scena di Michael Scott si verificò il primo grande problema della serie. La sua partenza, alla fine della settima stagione, lasciò un vuoto narrativo enorme: Michael non era soltanto il capo maldestro della filiale di Scranton, ma il vero perno delle dinamiche comiche ed emotive della serie. Nel tentativo di sostituirlo, gli autori promossero Andy Bernard (Ed Helms) a nuovo manager, cercando in lui un erede capace di replicare l’impatto di Michael. Il risultato, però, fu tutt’altro che efficace: Andy finì per sembrare una copia annacquata del suo predecessore, priva di quella miscela unica di goffaggine, autorità maldestra e inaspettata umanità che rendeva Michael memorabile. Di conseguenza, la serie perse parte della sua tensione comica e della familiarità che per anni aveva tenuto insieme il gruppo, segnando un evidente calo di qualità nelle stagioni successive.
La ripetizione comica
Abbiamo capito fino ad adesso che una delle parole chiavi della sitcom è familiarità. Questo non vale solo coi luoghi e con i personaggi, ma anche con le gag: tormentoni, gesti ripetuti, espressioni tipiche. Tutte queste ripetizioni innescano nello spettatore una risata di complicità, capace di rafforzare il legame con lo spettatore: chi segue la sitcom sa che prima o poi quel momento arriverà e, quando accade, è come ritrovare un vecchio amico. La ripetizione, quindi, non è ridondanza, ma rituale condiviso.
In Camera Café Italia ritroviamo, puntata dopo puntata, momenti ricorrenti, attesi dal pubblico: il “togo” di Silvano (Alessandro Sampaoli), l’ossessione dei camper e dei Pooh per Paolo (Paolo Kessisoglu), la segregazione in bagno di Pippo (Massimo Costa) e molti altri esempi diventano dei rituali comici. Rivedere ogni volta questi elementi ci trasmette un senso di appagamento e di tranquillità.
Il bancone stesso diventa così un “palcoscenico fisso”, dove la ripetizione consolida l’identità della serie e rafforza il senso di comunità tra personaggi e spettatori.
Dialoghi brillanti e ritmo serrato
Il cuore della sitcom non risiede esclusivamente nella parola, ma nell’interazione tra dialogo e azione. Le battute devono essere precise e serrate, ma funzionano davvero solo se accompagnate da gesti, espressioni e movimenti nello spazio. La comicità nasce dal ritmo verbale quanto dalla messa in scena: un silenzio, uno sguardo o un ingresso improvviso possono avere lo stesso peso di una frase perfettamente scritta. Le sitcom costruiscono così una partitura fatta di parole e azioni, in cui ogni elemento contribuisce al tempo comico.
Basti pensare a The Big Bang Theory (2007-2019): come trasformare in comicità temi complessi come la scienza o la cultura nerd? La serie riesce a renderli divertenti e accessibili anche a un pubblico non specializzato grazie all’uso di riferimenti continui, ma sempre inseriti in dinamiche quotidiane e spaziali riconoscibili.
Un esempio emblematico è la gag ricorrente del “posto fisso” di Sheldon (Jim Parsons) sul divano: non importa quanto surreale o tecnico sia il dialogo precedente, la comicità esplode quando viene messo in discussione quel dettaglio banale e ossessivo, diventato col tempo un rituale familiare per lo spettatore.
The Sitcom-Code
Nel 2014, sulle pagine di The Atlantic, lo storico dell’arte Noah Charney raccontò un episodio curioso: la televisione croata gli aveva chiesto di scrivere il pilot di una sitcom. Nonostante la sua esperienza nella scrittura, Charney ammise di aver digitato su Google la domanda più semplice e diretta: “Come scrivere una sitcom” (purtroppo per lui, all’epoca Pictures Writers non esisteva ancora).
Il passo successivo, però, fu quello giusto: per comprendere davvero la struttura di un genere narrativo, non c’è scorciatoia che tenga: come diciamo sempre anche noi, l’unico modo per conoscere a meglio un filmo o un genere è solamente guardare, guardare e ancora guardare.
Così, da Seinfeld ai Simpson, Charney analizzò le serie come un vero strutturalista, cercando uno schema comune. Il risultato fu una scaletta minuto per minuto, che lui stesso battezzò sitcom-code.
Oggi, in occasione dell’anniversario del primo episodio di Friends, proviamo a mettere alla prova quella formula di Charney (che nell’articolo lui stesso definisce “formula”) e verificare se davvero funziona.
Per evitare problemi di traduzione, useremo i termini inglesi creati da Charney per dividere i vari beat di un episodio di Sitcom.
Teaser (1-3)
Si tratta di un breve sketch prima dei titoli di testa. Un breve set-up che richiede una battuta e una relativa reazione. Una singola gag che serve a introdurre i protagonisti, soprattutto per chi guarda la serie per la prima volta, e che, soprattutto, ha la funzione di anticipare l’ostacolo principale da superare nell’episodio.
Purtroppo, il primo episodio di Friends parte immediatamente con la sigla (anche se in un certo senso la sigla stessa ci aiuta a definire meglio i 6 amici di Manatthan). Ma già dal secondo episodio, Una moglie differente, ecco che non parte subito la sigla, ma una discussione sull’importanza del primo bacio in una relazione: uno scontro tra donne, che valorizzano il bacio come parte importante della relazione, e i maschi, che lo definiscono come “il comico prima dei Pink Floyd” e che chi va al concerto non ha pagato per il comico (ovviamente, facendo quindi un allussione al fatto che l’obiettivo del maschio è andare a letto).
Trouble (3-8)
Ritroviamo i nostri protagonisti esattamente dove li avevamo lasciati: immersi nella loro quotidianità, quasi come se nulla fosse successo nell’episodio precedente. Ma come prevede la “sitcom-code”, un nuovo problema deve presentarsi e diventerà la trama principale (linea A). Da qui, i personaggi devono elaborare un piano per affrontarlo.
Nel secondo episodio, Ross (David Schwimmer) incontra di nuovo la sua ex moglie Carol (Anita Barone) sul posto di lavoro. Non solo ha visto fallire il suo matrimonio, ma scopre anche un’ulteriore “bomba”: Carol è incinta e crescerà il bambino con la nuova compagna, Susan (Jessica Hecht). Ross rimane pietrificato, come l’uomo primitivo raffigurato dietro di lui. Questa è la linea A, il nucleo centrale dell’episodio.
Charney sottolinea come, circa a metà di questo secondo beat, faccia la sua comparsa una prima sottotrama (linea B) e poi, se necessario, una secona (linea C). Le sottotrame, più brevi della principale, coinvolgono spesso personaggi secondari e talvolta si collegano al finale della linea A.
Subito dopo l’annuncio di Carol, ci spostiamo dagli altri amici: stanno guardando la televisione mentre Monica (Courteney Cox) è presa da una pulizia compulsiva della casa. Stanno infatti per arrivare i suoi genitori, che non hanno mai nascosto un atteggiamento giudicante nei suoi confronti. Questa è la linea B.
Nella stessa scena, si innesta anche la terza linea narrativa (linea C): Rachel (Jennifer Aniston) deve restituire l’anello di fidanzamento al suo ex, lasciato all’altare nell’episodio precedente. Il problema è che l’anello è finito nella teglia di lasagne che Monica ha preparato per accogliere i genitori.
Tre storie diverse, con pesi differenti: un conflitto enorme e identitario (Ross e la paternità), uno familiare e soffocante (Monica e i genitori), uno leggero e farsesco (Rachel e l’anello). Tutti, però, convergono attorno a un unico tema: il difficile rapporto con le relazioni e con la famiglia, tra il bisogno di approvazione e il rischio di esclusione.
The Triumph/Failure (Minutes 13-18)
Come osserva Charney, nel mondo delle sitcom “il fallimento è non solo frequente ma anche accettabile”: è un fallimento che diverte, non che frustra, perché l’obiettivo non è trasformare i personaggi ma mantenerli costanti: se cambiassero davvero, non saremmo più dentro una serie ma dentro un film (sulla differenza tra finzione, documentario e serialità torneremo in un prossimo articolo).
Per questo è fondamentale mostrare quanto la posta in gioco sia alta: più alto è il rischio per il personaggio, più sarà difficile da gestire e più efficace sarà la resa comica.
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Un esempio perfetto lo troviamo nella cena con i genitori di Monica e Ross. Dopo un intero pomeriggio passato a rassettare e cucinare, Monica vede la madre sprimacciare lo stesso cuscino. Non solo: liquida gli spaghetti, preparati con cura maniacale, come “un piatto facile”. Nulla di quello che Monica ha programmato sembra bastare. Per cercare sollievo, Monica invita Ross a parlare della sua situazione, ma il diversivo peggiora le cose: la conversazione scivola su Rachel e sul suo matrimonio fallito all’altare. Anche lì, la madre non risparmia la frecciata: “almeno lei ha avuto l’occasione di piantare un uomo all’altare”. È a quel punto che Ross esplode la sua rivelazione: la moglie lo ha lasciato per un’altra donna, è incinta e crescerà il bambino con la nuova compagna.
Questa scena è centrale perché, in un unico setting, concentra tutte e tre le linee narrative: la trama principale di Ross, la sottotrama familiare di Monica e il filo comico di Rachel. Ed è piena di gag e battute che nascono direttamente dal conflitto.
Ma, come sottolinea Charney, l’importante è non spingersi ancora al payoff: la tensione resta sospesa, senza mostrarci se il “piano di riserva” funzionerà o meno.
Ecco come Charney schematizza il minutaggio in questa fase:
Minuto 13–15
Si ristabilisce l’azione della Storia A, ma ci si ferma prima della risoluzione
Ross è alle prese con la notizia della gravidanza di Carol. La tensione cresce: lo spettatore si chiede come si comporterà quando andrà a trovare la ex moglie mentre ascoltano insieme il primo battito del feto. Qui la scena è sospesa prima del payoff: non sappiamo ancora come reagirà Ross di fronte all’incontro con Carol e Susan.
Minuto 15-17
Si conclude la Storia B: il personaggio secondario riesce o meno nel suo intento, e questo può avere effetti (o no) sulla Storia A
Monica tenta disperatamente di sembrare perfetta agli occhi dei genitori durante la cena. Nonostante tutti gli sforzi, le critiche della madre non mancano e Monica non riesce a ottenere l’approvazione che sperava. Questa sottotrama si chiude mostrando il fallimento comico e familiare di Monica, che però non impedisce l’evoluzione della Storia A.
Minuto 17-18
Arriva la risposta definitiva della Storia A.
Ross affronta la realtà: la gravidanza di Carol è concreta e il bambino crescerà con Susan. Il suo ruolo di padre deve essere ridefinito, e in questa fase si conclude il conflitto principale dell’episodio. Il protagonista non “vince” nel senso tradizionale, ma affronta la situazione, consolidando il tono emotivo e comico tipico della serie.
Ma in tutto questo, la linea C? Rachel e l’anello? Dove lo piazziamo nella struttura di Charney? Queste domande mettono in luce il limite di ogni approccio troppo formalizzato: le sitcom, come ogni altro genere, vivono di eccezioni, di incastri imprevisti e di sottotrame che servono più a sviluppare i personaggi nel lungo periodo che a “funzionare” nel singolo episodio.
Ma c’è un punto decisivo: chi conosce bene Friends sa che Ross e Rachel non sono solo due linee parallele, bensì due archi destinati a intrecciarsi. Il loro percorso li condurrà, in futuro, a diventare coppia e persino a sposarsi. Per questo, già dal secondo episodio, la linea A (Ross e la gravidanza di Carol) e la linea C (Rachel e l’anello di Barry) vanno lette come due narrazioni speculari e parallele, poste sullo stesso piano tematico.
- Ross deve affrontare la perdita del suo matrimonio e il nuovo legame con Carol e il futuro bambino.
- Rachel deve affrontare la chiusura simbolica del suo matrimonio fallito, restituendo l’anello a Barry.
Entrambi si trovano davanti a un rito di passaggio, una tappa che sancisce la fine del “prima” e l’inizio del “dopo”. Ecco perché, pur sembrando una linea secondaria, la storia di Rachel assume un peso diverso: non è una semplice “comic subplot”, ma parte integrante del disegno più ampio che gli autori hanno preparato.
La struttura di Charney può quindi essere “piegata” per includerla, non come una classica Story B, ma come una Story A bis: parallela, speculare e necessaria per comprendere il futuro della serie.
The Kicker (19-21)
Come il teaser introduttivo prima dei titoli di testa, anche in questo episodio c’è un “outro” che mostra i protagonisti alle prese con le conseguenze della storia appena vissuta. È un momento rassicurante, perché ci ricorda che, nonostante i conflitti e i piccoli drammi personali, la vita dei personaggi torna sempre a un equilibrio pronto a ripartire nell’episodio successivo.
Da una parte, Rachel affronta la sua prima vera separazione emotiva da Barry: scopre che lui amava già un’altra donna e che deve paradossalmente ringraziare la sua fuga dall’altare, perché lo ha salvato da un matrimonio infelice. È un passaggio doloroso ma necessario, che segna l’inizio del suo percorso di indipendenza.
Dall’altra parte, Ross, dopo aver discusso con Carol e Susan persino sul cognome da dare al nascituro, vive un momento di pura emozione: quando sente per la prima volta il battito del feto, le tensioni si sciolgono e i tre si stringono insieme, condividendo la stessa fragile felicità.
Infine, l’ultimissima scena riporta tutto al gruppo: Ross mostra agli amici il video dell’ecografia. Sullo schermo, un’immagine sgranata e poco comprensibile del feto, che però per lui è tutto. Gli altri guardano, cercano di interpretare la macchia in movimento, e alla fine si uniscono al suo entusiasmo.
Perché non si producono Sitcom in Italia?
Domanda legittima visto i due grandi potenziali della sitcom: basso costo e forte capacità di fidelizzare il pubblico. Eppure, nonostante ciò, in Italia il genere non ha mai davvero attecchito, salvo rare eccezioni, come Casa Vianello (1988-2007), Camera Café (2003-2017) e Boris (2007-2022).
Ma perché? È la domanda che si pone anche Luca Barra, docente e coordinatore del Corso di Laurea Magistrale in Informazione, culture e organizzazione dei media all’Università di Bologna, che ha da poco pubblicato La sitcom. Genere, evoluzione, prospettive (Carocci), un saggio dedicato proprio alla sitcom, uno dei generi più longevi e popolari della televisione internazionale, ma ancora oggi incompiuto nel panorama italiano.
Sitcom “100% italiane” come Finalmente soli (1999-2005), Via Zanardi, 33 (2001) o Belli Dentro (2015-2012) non hanno mai attecchito in Italia, secondo Barra, dal fatto che il genere non ha mai trovato un vero radicamento nel nostro tessuto sociale e culturale. Negli Stati Uniti la sitcom è cresciuta insieme alla società, riflettendone valori, paure, cambiamenti, mentre in Italia è rimasta legata a formule vecchie, derivate dall’avanspettacolo o affidate a singoli interpreti carismatici, senza riuscire a raccontare davvero la realtà nazionale.
È per questo che gli unici due titoli rimasti nell’immaginario collettivo sono Casa Vianello, forte della coppia Vianello-Mondaini, e Boris, che ha fatto breccia grazie alla qualità della scrittura e alla sua satira feroce dell’industria televisiva italiana.
FOTO - ALCUNE SITCOM ITALIANE
Conclusioni
La sitcom, con le sue regole precise, i suoi ritmi serrati e i suoi spazi riconoscibili, resta uno dei generi televisivi più amati e longevi. La sua forza non risiede solo nelle gag o nei dialoghi brillanti, ma nella capacità di creare familiarità, di far sentire lo spettatore parte di un piccolo mondo in cui i personaggi, con i loro difetti e le loro abitudini, diventano amici di casa.
E se in Italia il genere non ha mai trovato una piena maturità produttiva, il fascino della sitcom resta universale: ogni risata, ogni gag ricorrente, ogni battuta perfettamente cronometrata è un invito a sedersi sul divano, a osservare, a ridere insieme e a ritrovare quella dimensione di intimità condivisa che solo la sitcom sa regalare.
In fondo, il segreto del genere è tutto qui: farci sentire a casa, anche quando davanti allo schermo siamo lontani mille chilometri dai protagonisti.